sabato 7 ottobre 2017

Invisibile

Ciao, mi chiamo Mario.
Se sparissi il mondo non se ne accorgerebbe, e non parlo per retorica, non siamo in uno stupido film per adolescenti depressi. E' semplicemente che sono invisibile alla gente, a tal punto che una volta presentato scordano il mio nome quasi istantaneamente.
Sarà che non ho segni riconoscibili, gusti raffinati, sport in cui spicco, hobbies preferiti. Non ho neanche un genere musicale che adori in particolare, per non parlare di libri e film. Ma ehi, io esisto, anzi sopravvivo lo stesso, giorno dopo giorno, senza un senso. Né una direzione.
Si può quasi affermare che io vaghi per il mondo, mi aggiri inosservato agli occhi dei più, bazzichi da un interesse all'altro senza portarlo avanti molto e mi accingo così a morire, non avendo costruito legami, tanto meno accumulato ricchezze. Anche perché se non puoi condividerle, finire in una tomba placcata in oro o in decomposizione sotto un ponte non fa poi tanta differenza.
Ho 35 anni, lavoro come guardiano di un cimitero poco fuori dalla città in cui abito, il cui nome non ha importanza, e sto iniziando a pensare che ci sia qualcosa di strano in questo mio perenne passare inosservato. Ho sempre creduto che fosse esclusivamente colpa del mio carattere e del mio aspetto, ma il non ricordare il volto dei miei genitori, o di parenti vari, mi ha fatto nascere strane idee ultimamente. Ho letto su un libro di mitologia giapponese che esiste un essere in grado di impossessarsi del corpo delle persone, ed ha appunto la capacità di essere invisibile. Mi domando se per caso dopo aver preso il corpo di un estraneo, io abbia perso in qualche modo la memoria e sia costretto così in questo limbo, non riuscendo a ricordare come si faccia a tornare nella mia forma originale.

La Malleabilità della Memoria (Racconto breve concluso)

CAPITOLO ZERO
Stanza asettica, bianca, vuota. Una bambina, un uomo su un lettino. Lui le passa la qualcosa. Lei capisce che deve scappare da lì.
Entra un dottore, deve far finta di non sapere. Deve riuscire a fuggire. Il mondo deve sapere.


CAPITOLO 1
Il dottore le indica il lettino libero, lei è turbata  ma finge ignoranza e innocenza e si siede. Timidamente chiede al dottore di avere un momento d'intimità per spogliarsi, ed egli acconsente.
Adesso è sola, si guarda intorno: qualche sparuto macchinario emette bip dalla tonalità particolarmente apatica. Alzandosi si dedica alla ricerca d'un possibile modo per fuggire, ma griglie d'aerazione non sono in vista. Per puro caso, seguendo l'ombra proiettata dal dottore fuori dalla porta osserva un'irregolarità nel pavimento, vicino al più grosso dei macchinari.
Dopo vari tentativi di spostarlo tramite la semplice forza, decide di ricorrere all'ingegno, facendo leva tramite il muro, riuscendo a spostarla quanto basta per rivelare una botola. Il fatto stesso che fosse presente nella stanza usata per curare i pazienti che iniziavano a destarsi dal torpore, le destò più di qualche sospetto, ma non aveva tempo per le domande, doveva darsi da fare.
Infilate le unghie curate, riuscì a sollevare l'apertura e in un susseguirsi di azioni meccaniche per scendere e richiudere il tutto, si stupì del precedente pensiero: prima certe riflessioni non l'avrebbero neanche sfiorata.
Trovandosi all'inizio di una lunga serie di cunicoli pendenti verso il basso, assaporò l'aria. Aveva uno strano odore, ma ancor più strane erano le voci o i rumori che si udivano. Sembravano fuori dal tempo e dallo spazio, arrivavano all'orecchio con una sottile nota di tristezza e rassegnazione. Le uniche che riuscì a decifrare furono: "Avrei preferito non s...", "Vi prego non fatemi ... non so niente" e infine "Non toglietemi anche questo...". Gli altri spezzoni erano talmente flebili che sembravano risalire ad anni passati e dimenticati da molto, troppo tempo.
Le voci le giravano in testa come un turbinio di idee. Risuonavano nelle meningi pensieri completamente nuovi. L'urlo del dottore interruppe tutto ciò e un allarme si mise a suonare poco dopo.
La bambina iniziò a correre, dopo un breve istante d'illuminazione grazie al quale le fu possibile ricordare un nome, il suo: Natalie.
La galleria divenne sempre più ripida e labirintica, finché ad un certo punto, stremata dalla fatica e madida di sudore, scivolò ed iniziò una pericola caduta verso il basso.
L'inclinazione del condotto andava via via crescendo assieme alla velocità di Natalie, interrotta solamente per un momento da una grata. La forza dell'impatto era stata tale da rompere le viti arrugginite. Per fortuna l'Istituzione non era solita rimuovere le strutture non più usufruibili dal personale e ben presto lei avrebbe capito perché la stanza in cui era finita faceva proprio parte di queste.
Batté la testa con violenza e cedendo alle forti emozioni svenne. Aprì gli occhi e il mondo non c'era. Guardò meglio ed in realtà c'era, ma una densa cortina di quella che a prima vista sembrava nebbia le offuscava la vista. L'impossibilità di distinguere i contorni di ciò che aveva attorno, la fece focalizzarsi sull'udito.
Le sembrava che le voci udite in precedenza fossero più vicine, quasi assordanti. Erano tuttavia ancor più rarefatte e incomprensibili. Sentiva di essere ad un passo dal capire ogni cosa, però non riusciva che ad ottenere frustrazione nell'impossibilità di ricostruire la realtà.
Finalmente si accorse che l'ostacolo alla sua vista non era vera e propria nebbia, anche se somigliante:
era come se l'aria fosse satura di pensieri, idee e riflessioni di centinaia, se non migliaia di persone, chissà da quanto tempo morte o sparite. L'aria stessa sembrava la materializzazione di quel flusso di coscienza.
A tastoni riuscì ad arrivare ad una porta, una volta aperta sopra vi trovò un cartello, quasi un epitaffio: "ATTENZIONE! MEMORIE DI PAZIENTI INFETTI". Si guardò intorno, si trovava in un lungo corridoio, e ad ogni porta era presente un cartello simile. In un in'instante tutte le fu chiaro: la conoscenza passatale dall'uomo sul lettino era la capacità di ricordare, il ricordo di avere memoria.
Nella stanza da dov'era scappata si "curavano" i pazienti che iniziavano a pensare con la propria testa, o mostravano di avere ricordi di un passato in cui l'umanità non era nella condizione attuale. I pensieri e le idee sentite per tutta la griglia, che in realtà non era d'aerazione ma di scarico di "rifiuti mentali", rappresentavano i ricordi e le loro memorie.
Si ricordò di un padre e di una madre braccati dallo Stato, poiché tra gli ultimi sopravvissuti all'esproprio di ricordi. Le tornò alla mente come loro nel breve tempo a disposizione, cercarono di infonderle tutto il loro sapere e la loro cultura. Pianse ricordando il ritrovamento da parte della Psicopolizia e di come si immolarono per cercare di farla scappare, inutilmente. Alla fine del flusso di memorie non potevano che esserci le immagini delle lunghe sedute con il dottore, in cui cercava di tirarle fuori le posizioni dei nascondigli e i nomi dei pochi ancora coscienti. Fino al giorno in cui, arreso, aveva deciso che era giunta l'ora di cancellarle la memoria una volta per tutte.
Ora però lei era sveglia e conscia del presente: lo Stato controllava tutti i suoi cittadini eliminando nei più vecchi e reticenti i ricordi e la memoria tramite "l'intervento", privando i nuovi nati di ogni stimolo che potesse creare in loro pensieri che non fossero inerenti al servire lo Stato, al compiere il proprio lavoro, al copulare solo come mezzo di riproduzione, al non porsi domande e all'ubbidire incondizionatamente.
L'uomo infatti privo della propria memoria, sia personale che storica, è nullo. Un uomo che non ha ricordi è come se non fosse vivo. E' semplicemente un automa senza esperienza, non in grado di riconoscere l'emozioni provate, né tanto meno rendersi conto di vivere in una società dittatoriale e oppressiva, il cui unico scopo è sfruttare i cittadini come forza lavoro per far arricchire i pochi privilegiati delle classe dirigente. Tuttavia anche quest'ultimi con il ricambio generazionale tendevano sempre di meno a interessarsi alla storia e alla cultura, e prima o poi ciò avrebbe portato ad un circolo vizioso, dove tra schiavisti e schiavizzati non ci sarebbe stata poi molta differenza.
La mole di peso mentale costrinse Natalie a sedersi, le scoppiava la testa. In seguito al grosso stress fisico non era pronta ad affrontare tutto quel trauma psicologico. Era nel mezzo di due stati d'animo contrastanti l'euforia di essere finalmente libera, almeno mentalmente, e l'angoscia del dover sopportare quella scoperta e il dovere morale di non rendere inutile la morte dei genitori cercando di cambiare le cose. Il problema era proprio questo, non sapeva da dove cominciare e come poter liberare uno Stato che per un quarto circa non aveva neanche mai avuto ricordi personali.
Ma nell'immediato doveva fuggire dalla clinica, o da dovunque si trovasse in quel momento. Capì che non era conveniente per l'Istituzione che persone lavorassero vicino a quelle stanze potenzialmente ricolme di ricordi "contagiosi", indi per cui per almeno qualche chilometro doveva avere via libera, anche perché il corridoio in cui si trovava sembrava estendersi all'infinito. Ristabilita una discreta condizione fisica, si fece coraggio e iniziò ad avanzare. Per non perdersi decise di girare il cartello di pericolo ogni cinque porte, ricordandosi dello stratagemma del filo di Arianna, storia che il padre le aveva raccontato più volte prima di addormentarsi, proprio perché era la sua preferita.
Il passo spedito declinò gradualmente verso la settantesima porta (secondo i suoi calcoli), delusa dal non vedere né la fine del corridoio, né minimi cambiamenti nella struttura.
Le sembra di sentire rumori di passi, nonostante il suono sia particolarmente ovattato dall'ambiente.
Si ricordò dell'allarme dato dal dottore e si chiese se la stessero ancora cercando. Decise di restare ferma in ascolto, per evitare di essere individuata, se ciò non fosse già avvenuto. Aspettò cinque minuti e nel terrore d'essere scoperta decise di entrare nella stanza più vicina. Ancora una volta sentì pulsare la forza delle memorie strappate e perdute senza riuscire a comprenderle appieno. In lontananza sentì una porta chiudersi, preoccupata cercò un appiglio per raggiungere la grata sul soffitto, ma la stanza era completamente vuota, come le altre del resto. Il cuore le batteva forte, nonostante fosse comunque felice per aver raggiunto la libertà mentale. Confidava che se l'avessero scoperta la sua morte sarebbe stata breve e indolore. Preferiva spegnersi subito, e completamente, al rimanere un guscio vuoto, utile solo a lavorare e a riprodursi. Perdere la memoria una seconda volta era una soluzione assai peggiore della morte stessa.
L'eco di passi si faceva sempre più vicino e l'intervallo tra il rumore di un porta chiusa e l'altra continuava a diminuire. Proprio quando aveva perso le speranze e credeva che si sarebbe trovata di fronte il tipico casco della Psicopolizia, vide apparire invece due baffoni e una faccia rotonda con occhi così vispi da ricordare un topo. Notò subito l'enorme zaino che la figura aveva sulle spalle, instabilmente troppo pieno, pronto ad esplodere in un qualsiasi momento. In effetti se fosse stato tutto nero e in scala 1 a 10 lo si sarebbe potuto scambiare per un roditore, ma il condividere la stessa lingua smentì quest'ipotesi: le stava parlando da alcuni minuti, ma lo shock fu così forte da renderla quasi un vegetale. Ripresa da quello stato riuscì a decifrare le parole dell'uomo-topo come un "pacato" invito a sbrigarsi a seguirlo, in caso contrario presto sarebbero stati scoperti, e testuali parole "morire per una bambina sordo-muta non se lo sarebbe mai aspettato". L'unica risposta che riuscì a formula fu un miscuglio di consonanti senza senso. Alla seconda pseudo sillaba l'uomo l'aveva già presa per mano e si era messo a correre trascinandola con sé per il corridoio. Nello stesso tempo in cui lei aveva chiesto scusa, lui aveva detto di chiamarsi Archibald, di far parte dei sopravvissuti e che era stata fortunata perché solo per puro caso girando nelle fogne aveva sentito rumore di passi sopra la sua testa, e dopo essersi creato un'apertura aveva scoperto proprio ciò per cui era andato in missione. Il localizzare il deposito dei Ricordi era un obiettivo primario per la resistenza, ma bisognava riuscire a tornare vivi con l'informazione e morire lì adesso sarebbe stato quasi paradossale.
La scoperta, "stranamente" l'aveva lasciata senza parole. Finalmente aveva iniziato a correre per conto proprio, ma sentiva di essere osservata. Più che di un singolo sguardo aveva l'impressione di avere addosso decine di piccoli occhi. Per lei non significava niente, ma per Archibald fu subito chiara la presenza della sezione F.E.C.C.I.A. della Psicopolizia: uomini schiavizzati fino al midollo, torturati e soggiogati a tal punto da ridurre ad una fessura spenta le loro pupille. Insensibili a tutto ciò che non era un ordine inculcato con l'elettroshock, si muovevano spasmodici ma coordinati quasi involontariamente, spesso vittime di crisi epilettiche.
Il problema principale dello sfuggire alla F.E.C.C.I.A. consisteva nel loro agire senza tenere conto dei propri corpi, non pensando come uomini comuni anche alla loro sopravvivenza, e facendo tutto il possibile per portare a compimento le mansione ricevuta, anche a costo della propria vita.
In quel corridoio particolarmente stretto e pieno di porte aperte precedentemente dalla stessa Natalie, si spingevano a vicenda, camminandosi sopra e rompendosi le costole sugli spigoli degli stipiti. Per il loro ingente numero di perdite, venivano usati raramente e solo per le missioni più semplici, come il recupero di una piccola fuggitiva, non supponendo che con lei potesse esserci un membro della resistenza.
La F.E.C.C.I.A. recuperava terreno più in fretta di quanto Archibald si aspettasse, con quel ritmo li avrebbero presi prima di poter raggiungere l'apertura nel corridoio da egli creata. Era il momento d'improvvisare ed Archibald era un maestro. Prese Natalie sulle spalle, tirò fuori dallo zaino un coperchio di latta grande abbastanza per sederci sopra in due e una strana bottiglia di vetro scuro contenente una qualche sostanza oleosa non ben definita. La ruppe, lanciandola 6/7 metri davanti a sé e prendendo la rincorsa dopo aver detto alla ragazza di tenersi forte, usando il coperchio come slittino, si lanciò sulla scia verdastra, scivolando. Durante la fuga aveva calcolato il punto d'evasione contando le porte, e poco prima che il simil-olio finisse saltò dal coperchio tuffandosi lateralmente nel buco da lui creato.
Incitò Natalie a correre e mentre lei prendeva distanza posizionò sul muro una carica di trinitrotoluene (1 detto comunemente TNT) e la detonò una volta raggiunta la ragazza. La carica esplosiva fece crollare macerie sull'apertura, mentre un paio di F.E.C.C.I.A. erano intenti a passarvi attraversi. Sottoposti al peso dei detriti i loro organi interni cedettero, ma imperterriti continuavano ad eseguire i comandi, cercando di raggiungere la fuggitiva; per Archibald, che nei suoi lunghi anni di lotta aveva visto molti episodi del genere, fu uno spettacolo inquietante: vedere un uomo privato della propria sensibilità, anteporre il suo compito alla vita stessa. Fu ancor più addolorato nel non riuscire a impedire a Natalie quell'orrida visione.
Un trauma dopo l'altro si susseguivano dall'inizio della sua fuga e aveva bisogno di allontanarsi da tutto ciò che ne era la fonte il prima possibile. Si girò e sfogò il suo carico emotivo correndo a perdi fiato, fino a che, perlata di sudore, si appoggiò al putridume del muro della fogna, senza pensarci due volte.
Archibald la raggiunge e istintivamente l'abbracciò; le ricordava la figlia perduta, rapita dalla Psicopolizia, forse morte o peggio succube del lavaggio del cervello. Involontariamente si ritrovarono a piangere copiosamente. Erano lacrime di stanchezza, ma anche di liberazione. Trovare un sopravvissuto era diventato un evento più unico che raro, e le perdite giornaliere erano in continuo aumento nell'ultimo tentativo di scovare una falla nel sistema.
Lui ce l'aveva fatta. Scoprire l'ubicazione del deposito dei ricordi negli ultimi 10 anni fu il suo scopo di vita. Era disposto a sacrificare sé stesso se avesse potuto trasmettere agli altri l'informazione tanto agognata.
Dolcemente la prese in spalla, le diede un pezzo di pane (2 senza sale affinché potesse conservarsi per più tempo) e si avviò di buon passo, mappa dei sotterranei in mano, verso l'uscita più vicina al Rifugio.


CAPITOLO 2
Sentiva lo scrosciare ovattato della pioggia attorno a lei. Si svegliò avvolta da coperte di lana, provava un dolce tepore, era una sensazione nuova e strana allo stesso tempo. Iniziava a riscoprire il piacere delle piccole emozioni.
Stava talmente bene da voler rimanere in quella posizione in eterno, ma i ricordi le cominciarono a riaffiorare, pulsando feroci. Non erano solo una liberazione dalla catena dell'ignoranza, ma un dovere nei confronti dei restanti anelli che aspettavano ancora di essere spezzati.
Si alzò scostando le coperte. Al suo fianco Archibald dormiva profondamente, una mano poggiata sul giaciglio, come a proteggerla.
Come una piuma, per non svegliarlo, svolazzò per il rifugio osservandone i dettagli: era una stanza spoglia, ma emanava un senso d'umanità già provato, un senso di famiglia. Sul lato destro del giaciglio vi erano un armadio consumato e uno specchio mezzo rotto in cui riflettendosi, si stupì dei cambiamenti che il suo volto aveva avuto in così poco tempo. Era proprio dal volto che si poteva distinguere un "senza memoria" da una persona ancora non privata dei suoi ricordi: gli occhi diventavano vacui, le guance perdevano colore e la bocca si trasformava in una smorfia inespressiva.
Il suo di volto portava ancora i segni della lobotomia, ma era in netta ripresa. Sulla sinistra invece vi era una brace posta all'interno di una piccola cunetta nel terreno. A seguire, sulla stessa direzione, ma nella parte più alta del muro si apriva un oblò. Di fronte, vi era una porta socchiusa. Le si avvicinò e l'aprì con cautela. Scricchiolando rivelò un corridoio, tozzo e poco illuminato.
Archibald si era alzato accostandosi a lei.
Senza avere neanche il tempo di ricevere una domanda riguardo questo luogo, aveva preso parola:
<<Ci troviamo nell'ultimo rifugio rimasto, più volte siamo stati scoperti e nonostante fossimo sempre pronti a questa evenienza non abbiamo potuto fare a meno di avere delle perdite.>> Si fermò contenendo per un non nulla le lacrime.
<<Tuttavia questo rifugio è diverso dagli altri, si trova per metà sottoterra ed è costituito da una sorta di labirinto di stretti corridoi e piccole stanze. Si estende per due chilometri e le vie di fuga sono forse maggiori dei luoghi adibiti ad abitazione.>> Infine indicandole il giaciglio <<Riposati un altro po', a breve avremo una riunione importante con tutti gli altri sopravvissuti, gradirei ne facessi parte anche tu...>>
Natalie fece di sì con la testa, ma si accomodò vicino al piccolo focolare. <<Ho dormito anche troppo, ora che sono sveglia non voglio "addormentarmi" mai più.>> Rigirandosi le mani vicino al fuoco aggiunse: <<E' tempo di agire, dobbiamo almeno provarci...>>
Detto ciò Archibald si sistemò di fronte a lei, compiaciuto dalle sue parole, e ancora più convinto di farla partecipe dell'incontro.
Passarono un paio d'ore senza parlare, riscaldandosi e accontentandosi della semplice presenza altrui. Le fece segno di alzarsi e aprendo la porta le fece strada. Camminarono per circa quindici minuti, svoltando più e più volte. Natalie si stupì dell'incredibile memoria dimostrata dall'uomo, che non tentennò a bivio alcuno.
Arrivarono in una grande sala adibita ad auditorium; in contrapposizione col resto del rifugio era ampiamente illuminata, tappezzata da lampade e piccoli fuochi posti a distanza costante l'uno dall'altro. Al centro della sala vi era un enorme tavolo rettangolare, circondato da circa cinquanta sedie, il tutto in legno di faggio. Come tanti cerchi concentrici, con origine nel tavolo, si alzavano gradinate in grado di contenere qualche centinaio di persone. Ad occhio e croce i posti erano quasi tutti occupati, a eccezione di una sedia al grande tavolo che spettava ad Archibald.
Le disse che non poteva sedersi con lui, essendo le sedie designate al Consiglio, e le indicò un posto vuoto sulle gradinate, il più vicino per quanto possibile a lui.
Fra i membri del consiglio spiccavano due figure, nettamente in contrasto tra di loro. L'uomo che prese la parola per primo era Leopold: un tipo alto e snello, forse troppo, vestito scuro, occhiali neri rotondi. Portava le basette lunghe e folte. I capelli scuri anch'essi, tirati indietro, erano tenuti fermi da un cappello a cilindro. Lo sguardo fermo e sicuro, era in sintonia col suo tono di voce, freddo e impassibile.
<<Dobbiamo prendere in mano la situazione. Dobbiamo agire, il prima possibile. Conoscendo, adesso, la posizione del Deposito non abbiamo più tempo da perdere...>> disse concisamente, assumendo un atteggiamento di superiorità.
A controbattere fu l'altra figura, Geoffry, un signore piccolo e rotondeggiante.
<<No...n...non possiamo a...agire così su due piedi.>> disse lisciandosi, per quel che poteva, il vestito vecchio e logoro. << Dobbiamo r...ra...ragionarci sopra.>>
Si muoveva in modo nervoso, appariva particolarmente insicuro dall'esterno. Tutto nel suo abbigliamento e nel suo atteggiamento riportava all'idea di qualcosa di consunto, passato.
<<Non è in b...ballo solo il nostro di fu...futuro...>> Concluse mordendosi le labbra. Sembrava ossessionato da chissà quali dubbi. Tuttavia aveva una voce calda e profonda, se non fosse stato per quel difetto di balbuzie, avrebbe dato tutt'altra impressione di sé.
I due iniziarono a bisticciare, isolandosi dal resto delle persone. Presto la discussione passò sul personale, accusandosi rispettivamente Leopold di tradimento e Geoffry di vigliaccheria.
Archibald infuriato prese parola: <<Zitti! Finitela di comportarvi come bambini! È in gioco il nostro avvenire. Ogni giorno che passa siamo sempre meno, ora abbiamo finalmente l'opportunità di poter cambiare qualcosa. Fino ad oggi non siamo stati altro che mosche da schiacciare per il nostro nemico, abbiamo solamente girato intorno alla merda di questo mondo. L'abbiamo annusata per anni, ora possiamo pulire questo schifo. Scusate il linguaggio, ma sto diventando vecchio e sono stanco.>>
Non fece in tempo a riprendere fiato che si sentì un'esplosione sopra le loro testa. Poteva significare solo una cosa: erano stati scoperti, e di conseguenza l'esistenza di una spia fra di loro era quasi certezza.
Arch corse verso Natalie, la prese per mano e si mosse in direzione del corridoio più vicino. Da anni sospettava ci fosse un intruso ogni volta che venivano scoperti, ma oggi probabilmente ne aveva avuto la conferma. Era impossibile bombardare con precisione un rifugio sotterraneo senza conoscerne le coordinate precise, in particolare ciò che toglieva ogni dubbio era il momento dell'attacco. I membri della resistenza erano quasi sempre sparpagliati e in missione, si incontravano una volta al mese e il giorno cambiava sempre.
Tutto iniziava a cedere sotto i colpi dei mortai, che sparavano cadenzati, facendo vibrare l'intera costruzione.
La via di fuga più vicina probabilmente si sarebbe rivelata la più pericolosa, considerando l'elevata possibilità di un'imboscata. Decise di scegliere la più sicura e nascosta, anche se il rischio di crollo aumentava notevolmente, essendo anche l'uscita più distante.
Avvertì in qualche modo i compagni vicini a lui della decisione, nonostante fossero presi dal panico e si stessero dirigendo tutti in direzione opposta. Loro, conoscendolo bene, si fidarono ciecamente e si sparpagliarono per avvertire gli altri. Tuttavia mancavano all'appello Leopold e Geoffry, che qualcuno diceva aver visto imboccare la via più breve.
Come al solito stavano litigando, Geoffry stava pregando Leopold di tornare indietro, dato che si muovevano verso probabile morte. Ma lui non sentiva ragioni, era sbiancato in viso, aveva perso il cappello per strada e i capelli sudati gli pendevano sugli occhi, nonostante gli spasmodici tentativi di tirarli indietro.
Svoltò l'ultimo angolo, quasi cadendo per la fretta e si trovò di fronte la psicopolizia. Si girò preoccupato verso Geoffry che l'aveva appena raggiunto. La smorfia di preoccupazione si trasformò in un ghigno beffardo, fino a che nel corridoio non riecheggiarono le sue risate. Per Geoffry era troppo tardi. Venne gambizzato e catturato in pochi secondi.
Un uomo coperto in volto si fece largo fino a stringere la mano a Leopold. Diede qualche ordine agli altri agenti e si allontanò insieme a lui verso l'uscita.
Questa volta per la FECCIA era un incarico troppo importante da svolgere. Richiedeva una minima facoltà di ragionamento e non era il loro forte. Erano stati assoldati invece membri in egual misura della sezione VVP (Vado Vedo Prendo), truppe agili e veloci, muniti di armi leggere in grado di immobilizzare i bersagli nel minor tempo possibile, e della sezione GARGOYLE, truppe grosse e muscolose, ma tremendamente lente, adatte al combattimento ravvicinato, al trasporto e alla cattura dei bersagli già immobilizzati.
I VVP, a cui veniva inibita la produzione di acido lattico, potevano correre senza fermarsi per giorni. Era quasi impossibile sfuggirgli, anche se, nonostante non provassero dolore, i loro muscoli spesso si laceravano durante le azioni di massimo sforzo, senza che loro se ne accorgessero, fino al momento in cui non si trovavano a terra con le gambe inutilizzabili.
L'unico difetto dei GARGOYLE, invece era la loro impotenza, dovuta all'assunzione eccessiva di testosterone, ma ciò non era minimamente un problema per il compito che dovevano svolgere.


CAPITOLO 3
 Arch aveva finito di raggruppare i sopravvissuti e aveva appena imboccato la via di fuga quando sentirono il rumore dello sparo che aveva colpito Geoffry. Essendo ignari del tradimento di Leopold, pensarono che entrambi fossero morti per la causa, e con questa immagine forte in mente accelerarono, aiutando i più lenti... Nessun'altro doveva morire.
Come aveva previsto l'edificio stentava a reggere le esplosioni e iniziava a sgretolarsi a vista d'occhio. Erano riusciti a radunare circa due terzi delle persone, le altre prese dal panico si erano sparpagliate o erano andate incontro a morte certa verso l'uscita più vicina.
Erano ancora a metà tragitto quando un'enorme crepa si materializzò sul soffitto, e senza neanche dargli il tempo di reagire, ne portò con sè un enorme pezzo in terra, ferendo gravemente 3 di loro e rischiando molto di più. Riuscirono a liberarli dalle macerie e più in fretta che poterono accelerarono la loro fuga. Fu solo il primo di numerosi cedimenti, a pochi metri dall'uscita ormai erano rimasti in un centinaio, chi ucciso dai massi e chi rimasto bloccato.
Erano confusi e malconci, ancor di più spaventati. La speranza di cambiamento si era tramutata in pochi minuti in terrore della morte e consapevolezza della futilità delle loro azioni. In tutti, tranne in Archibald.
<<So che parlare adesso è stupido e rischioso, ma ho nascosto un ultimo rifugio per casi come questo. Chiunque di voi vorrà andarsene non sarà giudicato, oggi più che mai siamo stati colpiti nel profondo; ma io credo ancora. Credo ancora nel cambiamento, nella vita e nella memoria. Chi la pensa come me è libero di seguirmi, ben conscio di non tornare indietro.>>
Il gruppo così si spezzò in due, la prima parte si sparpagliò e si perse: chi andando a caso, chi avente un'ultima roccaforte personale. La seconda invece si strinse attorno ad Archibald, fra questi anche Natalie.


EPILOGO
Due anni più tardi Natalie ripensava con nostalgia a quel giorno, quando tutto era iniziato e Archibald era ancora in vita. Il suo piano di usare le fognature per fare esplodere tutte le tubature del deposito dei ricordi si era rivelato piuttosto ingegnoso, ma nonostante tutto Leopold aveva anticipato le loro mosse. Le scese una lacrima ricordando il sorriso con cui Arch si buttò come un kamikaze su di lui, dopo aver finto la resa e avergli promesso di consegnarli il resto dei sopravvissuti in cambio della sopravvivenza di Natalie. Era importante per lui, ma il suo obiettivo era più grande e corse il rischio di ferirla nell'esplosione detonata dalle cariche che aveva nascosto indosso. Per fortuna o per disgrazia Natalie ne uscii viva, non tutta intera, ma il cervello le funzionava ancora. Il deposito non era crollato del tutto, ma le fuoriuscite erano state numerose e con esse anche i casi di riacquisizione della memoria. Si era creata una grossa falla nel sistema e la gente cominciava a ribellarsi, ma il futuro era ancora lontano.

Fine.